Labyrinth 28

labyrinth 28

Labyrinth 28
, 2007
etching, aquatint, soft-ground etching
cm. 32x33, circulation figures 87.

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Labirinto XXVIII

 Il tema del Labirinto è ricorrente, da tempo, nell’opera incisoria di Toni Pecoraro, da diventare quasi un suo segno distintivo ed identitario. Quasi illustrasse le pagine di un diario intimo sperimentando la forma circolare, che si avvolge a spirale su se stessa che da Cnosso ha accompagnato l’arte e l’immaginario dell’Occidente, in contesti diversi che ne rinnovano il significato e la potenzialità evocativa e di suggestione, in uno spazio inventato al di fuori del tempo, che mescola cronologie impossibile e le ripropone in ricostruzioni che hanno la nitidezza dei disegni tecnici ricostruttivi degli architetti - o meglio oggi della computer grafica -, in questo paesaggio che evoca Ravenna, l’ultima capitale imperiale romana occidentale e sede di una nuova sperimentazione di contaminazione di civiltà con i Goti, sia di Odoacre che di Teodorico, che sarà poi bizantina. Il labirinto in primo piano racchiuso da un preciso quadrato che lo isola dalle rovine intorno, è la traduzione in pietre ben squadrate e disposte con un ordine rigoroso, per lo più con la sovrapposizione di due blocchi a spire dedaliche del disegno del pavimento a tessere marmoree della basilica di San Vitale a Ravenna, ritenuto per molto tempo di epoca medievale, mentre in realtà è stato realizzato nel XVI secolo, quando il livello del pavimento fu rialzato per evitare i continui allagamenti. Il labirinto di San Vitale ha come caratteristica il carattere monodirezionale del suo percorso: piccole frecce a forma di triangolo guidano lo sguardo dal centro verso l’uscita. Nell’incisione di Pecoraro questi elementi sono spariti, sostituiti da un sentiero di terra battuta che si snoda tra i muretti di blocchi di pietra, mentre è rimasta ben leggibile la via d’entrata affiancata da una diversa e parallela via di uscita, tipica del labirinto ravennate, dove, come qui, le volute sono sette. Ancora: ci sono in realtà due ingressi posti uno perpendicolare all’altro, poiché le frecce ravennate indicano che il punto di partenza è quello che volge la schiena all’abside con gli splendidi mosaici, per uscire dalla parte opposta verso una conchiglia, che qui non c’è. Entrambi, il ravennate e quello di Pecoraro, sono un modello del mondo e riprendono un labirinto unicursale, che corrisponde alla forma di quello di Cnosso, alla prima iconografia, dunque.
Umberto Eco ha descritto la forma dell’unicursale: “Provate a seguirne il cammino con una matita: esso rappresenta una struttura sicura e consolatoria, perché come vi si entra non si può che raggiungere il centro e dal centro non si può che tornare all’uscita. Se il labirinto unicursale fosse srotolato, ci ritroveremmo tra le mani un unico filo, quel filo di Arianna che la leggenda ci presenta come un mezzo (estraneo al labirinto) per uscire dal labirinto, mentre di fatto altro non era che il labirinto stesso.” La forma tuttavia conserva il suo rimandare ad un percorso iniziatico, ad un cammino che percorrendo la spirale ingenerava una corrente energetica, in grado di purificare e di elevare. Le sette volute sono finalizzate a caricarsi di energia cosmica, abbandonando quella pesante e terrestre. Da qui anche l’isolamento dallo spazio naturale circostante in questa incisione che ne preserva il carattere magico ed emblematico. La forma di rovina archeologica tuttavia sembra dirci che esso è sopravvissuto come segno da un’altra epoca, da un’altra fede. Il mausoleo di Teodorico con la sua straordinaria bellezza e unicità, su di un lato, marginalmente accentua questo senso di sopravvivenza da un’epoca remota, sottolineata da rovine all’intorno e dal mare quieto sullo sfondo in contrasto con un cielo turbinoso e misterioso percorso da correnti e apparizioni di mondi, che venendo da lontano, sembrano avvicinarsi a noi. Una immagine che è simile a quella che D’Annunzio propone ne “le città del silenzio”: “Ravenna, glauca notte rutilante d’oro, / sepolcro di violenti custodito / da terribili sguardi, / cupa carena grave d’un incarco / imperiale, ferrea, construtta /… spinta dal naufragio / ai confini del mondo, / sopra la riva estrema!”. La doppia prospettiva usata da Pecoraro: una a volo d’uccello per il labirinto e l’altra frontale per il mausoleo crea inoltre quel senso di magica sospensione dell’immagine che ha nella turbolenza del cielo la sua chiusura drammatica, come se quello che si è visto prima fosse di un’altra epoca, lontano nel tempo: l’incanto di un sogno.

Parma, all’inizio della terza fase dalla pandemia 2020

Marzio Dall’Acqua